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24.10.12 Cornish, Alison. Believing in Dante: Truth in Fiction.

24.10.12 Cornish, Alison. Believing in Dante: Truth in Fiction.


Il volume raccoglie sei saggi danteschi nati come altrettante comunicazioni e prolusioni, tenute tra il 2019 e il 2020 (in presenza e/o virtualmente) in vari contesti accademici nordamericani ed europei. Di quella originaria destinazione orale i saggi mantengono il tono discorsivo e agile. Il filo che lega i sei contributi è l’ambiguo statuto della Commedia, leggibile ed eminentemente godibile benché--ma forse proprio perché--informata a un sistema di valori e prospettive spesso distante dal nostro e talvolta inconciliabile con il nostro (quando non del tutto inaccettabile per molti di noi). Cornish si propone di indagare questo ambiguo statuto attraverso una selezione di canti paradigmatici per le questioni cruciali (e spesso vexatae) che sono in essi affrontate e che tuttora appassionano il dibattito pubblico contemporaneo: la dialettica tra fatto, finzione, e narrazione (Inferno 5); il settarismo legato agli interessi di parte e all’assenza di valori condivisi (Inferno 10); il ruolo sociale della parola come strumento di comunicazione e di fiducia (Inferno 13); l’obiettivo della conoscenza, i limiti di essa, e la relazione tra fatti e valori (Inferno 26 e Paradiso 26); la libertà di scegliere e la diversità di ciò che esiste (Paradiso 3); il limite metafisico dell’universo fisico e della conoscenza di esso (Paradiso 29).

Nel primo saggio (“‘So Great a Lover’: Facts and Narratives in the Love Stories of the Lustful,” 22-61), Cornish legge l’episodio della lussuriosa Francesca, nel quinto canto dell’Inferno, alla luce dell’errore di lettura che la danna e della lettura implicitamente mistificante della propria dannazione che fornisce a Dante personaggio (e a noi): l’episodio è letto come drammaticamente emblematico della divergenza tra eventi e narrazione di essi nonché del ruolo che ciò in cui si crede svolge nell’istituire e radicalizzare quella divergenza. In questo senso, il saggio incipitario è il primo sia per questioni di ordine testuale sia per la portata euristica che acquista nell’economia del volume: d’altra parte, be-lieve è corradicale di love, come cre-dere lo è di cuore. Il secondo saggio (“‘Bad Light’: Factionalism and the Facts in the Cemetery of the Heretics,” 62-92) iscrive il decimo canto dell’Inferno, nel quale Dante interagisce con gli “epicurei” Farinata e Cavalcante, nell’ambito dell’estremismo politico di Firenze, la “città partita” (Inferno 6.61): da un lato, Cornish mette in evidenza la natura politica (e spesso anche economico-fiscale) dell’accusa di eresia; dall’altro, legge la specifica colpa di Farinata e Cavalcante come “unbelief” (71), miscredenza, scetticismo nei confronti della dimensione spirituale e dell’esistenza di una realtà escatologica, incapacità di condividere un sistema di valori, ritrosia a integrarsi nel tessuto connettivo, civico e ideologico, di Firenze. Nel terzo saggio (“‘Never Broke Faith”’ Losing Credibility in the Wood of the Suicides,” 93-122) Cornish offre un’interessante lettura politica del peccato di Pier delle Vigne, logoteta di Federico II, condannato da Federico per alto tradimento (ingiustamente, secondo Dante), dannato perché suicida, imprigionato in eterno in un doloroso carcere vegetale (e con ampi margini di peggioramento dopo il Giudizio finale). La dannazione di Piero è legata, per Cornish, a un duplice errore di valutazione: Piero sbaglia pensando di poter evitare col suicidio sia l’ira di Federico sia l’ira di Dio; e sbaglia pensando di superare una condizione di rabbia e sofferenza tutta spirituale immolando la sua forma materiale (109). Ma alla radice di quella dannazione Cornish pone la fiducia esclusiva presso Federico arrogata a sé da Piero e dalla quale gli altri sudditi sono esclusi. Il quarto capitolo (“‘Where Your Soul Is Pointed: Facts and Values in Ulysses’ Quest and the Examination on Love,” 123-155) associa in una lettura verticale del poema il celeberrimo canto che vede la partecipazione straordinaria di Ulisse (Inferno 26) e quello forse meno celebre ma decisamente strutturale nel quale Dante è esaminato dall’evangelista Marco sulla terza virtù teologale, la più importante: la carità (Paradiso 26). L’opposizione tra la ricerca di “virtute e canoscenza” (Inferno 26.120) di Ulisse e la conoscenza della virtù da parte di Dante--e tra i rispettivi destini ultraterreni dei due personaggi--rivela come nella Commedia la ricerca della verità coincida con la certezza della fonte di quella verità e possa darsi solo a partire da quest’ultima. Il quinto saggio (“‘Against Her Will’: Diversity of Desire in the Heaven of the Moon,” 156-207) analizza i diversi gradi di beatitudine di cui godono i membri della chiesa trionfante nel paradiso dantesco. In quello che è il più denso concettualmente e forse il più riuscito dei sei saggi, Cornish interpreta il discorso dell’incostante Piccarda Donati (monaca costretta a rinunciare ai voti in Paradiso 3) e le chiose di santa Beatrice a quel discorso (Paradiso 4). Il saggio sviluppa un punto nevralgico dell’etica e della teologia dantesche: la relazione tra libero arbitrio, predestinazione e teodicea. Cornish legge nelle posizioni espresse nel cielo della Luna tratti di severità (“The point of paradise is that there is justice and innocence is recognized, but also that human weakness is not an insuperable impediment...,” 194) ma anche di sicuro, confortante ottimismo (“...there is a truth that matters, and that truth is that what is good is really good, even if it loses in the here and now,” 195). Il sesto saggio (“‘How Much from the Point”: Saving Appearances at the Edge of the Universe,” 208-243) è “ambientato” nelprimum mobile (Paradiso 29). Il saggio esamina il discrimine tra il fisico e il metafisico, e anche tra l’infinito e l’eterno, nell’ottica della creazione e del puntuale primo atto di libero arbitrio (quello degli angeli), e invita ad ammettere che il limite estremo della conoscenza si dia già come inconoscibile. Completano il volume l’introduzione (1-21), la conclusione (244-253), l’indice dei nomi e delle cose notevoli (254-265).

Tra i meriti del libro è la naturalezza della scrittura, che regala spesso formulazioni efficaci. Nel sottolineare, per esempio, che l’esame che Dante sostiene sulle tre virtù teologali si svolge nel cielo delle stelle fisse, Cornish commenta (in riferimento a Paradiso 25.70): “In the examinations on faith, hope, and love, Dante makes it clear he has done the reading--the metaphor for which are the stars, so that he is, so to speak, taking his exam in the library” (130). Ma si vuole rilevare soprattutto la schiettezza e l’onesta intellettuale con le quali Cornish offre una lettura del poema che ne privilegia la pervasiva cristianità e che proviene da una prospettiva interpretativa che al cristianesimo sembra intimamente ispirata. Se per comprendere e apprezzare il poema non è necessario condividerne i valori, suggerisce Cornish, è tuttavia indispensabile riconoscere che un preciso sistema di valori--cristiani, e di un cristianesimo medievale--ne costituisce l’universo concettuale e formale. Già per Hans Robert Jauss, d’altronde, indagare l’alterità della letteratura medievale ne metteva in rilievo la contestuale modernità. Per comprendere la Commedia, concede Cornish, si deve accettare di credere a Dante senza dover necessariamente credere in Dante e quindi in dio (anzi, in Dio): del resto, il patto narrativo, la sospensione dell’incredulità, non dovrebbe richiedere conversione. Per comprendere il poema si deve però accettare Dante come credente e riconoscere che cosa significhi “credere” in Dante. L’ambiguità semantica di “credere in,” to believe in, si impone fin dalla soglia del libro.

Cornish non sembra però auspicare il tipo di lettura dei testi medievali che Paul Zumthor proponeva come esemplare esercizio ermeneutico: una lettura critica che, di volta in volta, attraverso una ricerca metodica, facesse progressivamente (e temporaneamente) nostra la concezione del mondo espressa in quei testi e ne assorbisse i modelli concettuali, spesso radicalmente alternativi rispetti ai nostri e quindi assai stimolanti sia in senso propriamente cognitivo sia nel senso di un piacere quasi erotico della lettura. Nel fare propria (16) la posizione di John Freccero--per cui ogni lettura di valore richiede a lettori e lettrici di comprendere il testo letterario come testimonianza di un’esperienza autentica da accettare senza compromessi (“without compromise,” secondo Freccero)--Cornish sembra invece proporre un tipo di lettura che dantescamente ricerchi il senso del testo in quello statuto di verità che il testo assume per sé, a priori e assiomaticamente, come origine e fondamento. Piuttosto che una Erfahrung, un itinerario di conoscenza che riduca punto per punto la distanza epistemica che ci separa dalla Commedia, l’esperienza del testo--e l’esercizio interpretativo sul testo--che Cornish descrive sembra piuttosto una Einfühlung, un impulso all’immedesimazione, se non un vero e proprio Erlebnis, un’esperienza vissuta.

Non tutti condivideranno il tono apodittico, e quasi vatico, di alcune posizioni espresse nel libro. Quando Cornish scrive: “To will what God wills is to want what is, to want what we have, and to want to be what we are. Which is to be different from anyone else” (15), non è del tutto chiaro se una tale dichiarazione esprima l’idea che Cornish ha di Dante e del Dio di Dante o l’idea che Cornish ha di Dio. Si può avere l’impressione, insomma, che oltre a credere in Dante si debba anche credere in Cornish (o come Cornish). In questo senso, il discorso indiretto libero cui la prosa del volume spesso ricorre in momenti nei quali ci si sarebbe potuti aspettare uno stile più analitico, e meno evocativo, non si dimostra sempre la soluzione retorica più opportuna. Anche prescindendo da una prospettiva materialista o radicalmente storicista, riguardo ad affermazioni come “To believe there is truth in what he [scil. Dante] recounts is to believe there is something external to and independent of the representation he weaves, but to which that representation points” (7), si potrebbe rispettosamente eccepire che si tratta piuttosto di concedere che Dante effettivamente creda che ciò che racconta abbia un fondamento di verità che esiste al di là della finzione testuale. Si tratta cioè di concedere--e non è un dato critico scontato--che non ogni narratore sia necessariamente un “bugiardo autorizzato,” per dirla con Cesare Segre. Ma si deve indubitabilmente riconoscere che il libro di Cornish nasce da una lettura meditata e coerente dell’opera di Dante, poeta per molti versi secolare ma sempre inconfondibilmente cristiano: una lettura che potrà risultare a tratti “ideologica” e straniante, com’è proprio di ogni interpretazione orientata (e forse di ogni interpretazionetout court), ma nella quale si palesa sempre la conoscenza profonda che Cornish ha della Commedia e dell’universo di cui il poema è prodotto e interpretazione. E forse il merito principale del libro di Cornish è che ci ricorda la resistenza della Commedia verso ogni lettura del testo positivisticamente definitiva e ci invita a dialogare con la disarmante polifonia non solo del “poema sacro” ma anche del secolare commento e dalla filologia e critica dantesca.