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22.09.05 Alexandre-Bidon et al. (eds.), Le vêtement au Moyen Âge

22.09.05 Alexandre-Bidon et al. (eds.), Le vêtement au Moyen Âge


Uno dei molti punti di forza di Le vêtement au Moyen Âge: De l’atelier à la garde-robe risiede nell’aver raccolto saggi che fanno un uso esemplare del metodo interdisciplinare, utilizzando fonti narrative e documentarie, insieme ad altre di provenienza archeologica, museologica, e iconografica, senza tralasciare il prezioso apporto del media cinematografico. L’opera nel suo complesso fornisce una meravigliosa introduzione alla cultura materiale del vestiario nel Medioevo prima e dopo la peste nera e un ulteriore spunto per scrivere sulle complesse interazioni tra le persone, il loro ambiente materiale e il loro rapporto con le apparenze. Ai curatori va il merito aggiuntivo di aver incluso anche argomenti insoliti, ma certamente molto importanti, come: la rappresentazione del diverso, del socialmente eterodosso come poteva esserlo lo stregone o la strega; la questione, sempre più attuale, del recupero, anche attraverso abiti dismessi e trasmessi di generazione in generazione, di stoffe e indumenti ancora utilizzabili; il Medioevo “cinematografico”; gli abiti degli animali. Grazie anche a una nutrita e curata bibliografia, il lettore non esperto ma curioso si troverà in ottima compagnia di autori colti e potrà semplicemente attingere alla ricchezza di dati qui presentati o farsi guidare dalle suggestioni fornite dagli spunti tematici. Il lettore specialista invece apprezzerà il livello di dettaglio espresso da analisi puntuali e informate.

Di contro, uno dei limiti di questo libro è quello di rivolgersi a un pubblico principalmente francofono; aspetto tanto più evidente anche nella scelta di tralasciare la citazione di essenziali studi pubblicati in inglese, nonché quelli pubblicati da case editrici olandesi, spagnole, tedesche, e italiane, praticamente assenti, eccezion fatta per alcuni riferimenti obbligati.

Nel senso più generale, Le vêtement au Moyen Âge: De l’atelier à la garde-robe si inserisce in un filone di studi storici che si occupa dello sviluppo delle abitudini vestimentarie dell’uomo e della donna medievale in relazione al cambiamento delle abitudini di consumo e degli standard di vita sullo sfondo delle profonde modificazioni che interessarono l’Europa nei secoli del Medioevo. L’approccio è stato ispirato dai lavori di sociologia, storia economica e, in ultimo, storia del costume che a partire dalla metà del Novecento e con sempre maggior fervore verso la fine del secolo si sono impegnati in uno sforzo di dialogo collettivo e fruttuoso sul tema del vestiario e della moda, e di tutti quegli aspetti e fattori come la produzione, la commercializzazione, il consumo ecc.

Dopo l’ottima introduzione di Gauffre Fayolle, che opera un’efficace sintesi della complessità e della varietà degli studi, sul costume e sugli accessori d’abbigliamento, che si sono succeduti a partire dalla seconda metà del XIX secolo essenzialmente in ambito francofono, seguono quindici corposi saggi che affrontano questi temi, articolati in quattro macrosezioni: I. “À la recherche de la matière”; II. “Le vêtement: Production et circulation”; III. “Codification, trangression, usages sociaux”; IV. “Imaginaire, héritage et réinteprétations”.

La prima sezione richiama i classici lavori di Sapori sul mercante medievale ma anche quelli di Braudel, di Cardon sui tessuti e naturalmente di Piponnier sugli strumenti del credito, l’attività commerciale nonché i prodotti offerti dai mercanti. Il primo saggio di Wilmart, dedicato a un’attenta analisi delle stoffe che tra il XIII e il XIV secolo circolavano nella regione della Champagne, riprende un tema d’indagine classico della storia economica, quello dedicato alle fiere che sei volte l’anno, a Lagny e Bar-sur-Aube e a Provins e a Troyes garantivano la continuità delle transazioni. In una sezione dedicata interamente ai tessuti e ai drappi di varie fogge e colori, il saggio dialoga in maniera convincente con gli altri contributi, come per esempio quello di Rousselot-Viallet nel quale l’attività del mercante di drappi viene fatta rivivere per mezzo di un uso molto sapiente di modelli iconografici in voga tra il XIII e il XV secolo. Sebbene quella sulla seta sia un tipo d’indagine molto frequentata dalla storiografia, soprattutto in riferimento alle pratiche commerciali (Franceschi, Goldthwaite) e alle produzioni lucchesi e veneziane (Del Punta e Molà), il lavoro di Desrosiers in questa sezione si distingue per una metodica attenzione agli aspetti tecnici del materiale in esame, che viene utilizzato come una vera e propria fonte. Di contro, sappiamo bene quanto siano rari i documenti che permettano di operare una descrizione completa del guardaroba di mercanti medievali o della prima età moderna (un caso a tutti noto è quello di Matthäeus Schwarz, il contabile di casa Fugger, che ci ha lasciato un libro che racchiude la descrizione e la rappresentazione iconografica dei 137 costumi da lui indossati durante la sua esistenza, analizzato e studiato da Ulinka Rublack). Qui, anche se l’uso di un inventario non inaugura certo una metodologia originale, il lavoro di Houssaye Michienzi e Lassalle consente tuttavia di approfondire questioni legate alle diverse componenti del guardaroba di un mercante fiorentino (Giovanni Maringhi) espatriato a Costantinopoli, e alle fogge, e ai colori, da lui adottati.

Del resto, quella della rappresentazione di un personaggio più o meno illustre, o di una casata nobiliare o di una famiglia regnante attraverso la scelta di abiti scelti per l’occasione è una linea di ricerca consolidata, qui ben rappresentata anche dal saggio di Gauffre Fayolle che inaugura la seconda sezione. Che la cultura materiale, e con essa le professioni destinate alla realizzazione di capi di vestiario e accessori, possa essere indagata a tutto tondo grazie agli apporti comparativi dell’archeologia, dell’antropologia e della storia non è, ancora una volta, tema innovativo ma il bel saggio di Mane consente di ampliare il discorso anche avvalendosi di un approccio iconografico variegato, pregevole e di tutto rispetto. Discorso analogo merita il pezzo di Jolivet dedicato ai cappelli e ai copricapi dei Duchi di Borgogna. Tema questo abbondantemente frequentato dalla storiografia francese (dalla stessa Jolivet, e per l’età moderna da Gaumy), ma che in questo saggio riflette una scelta molto indovinata che è quella di utilizzare la contabilità ducale in relazione alla fonte iconografica per indagare su un particolare capo di vestiario, molto à-la-page presso i Duchi di Borgogna, che non rifletteva solo il gusto personale del signore ma anche precise identità politiche. Molto interessante in questa sezione è il saggio di Kucab, che riesce a ricreare quello che era l’ambiente quotidiano del vestiario, non soltanto nei canali più esplorati dalla storiografia, come la produzione, l’uso e il consumo, ma anche nella sua circolarità, consentita per esempio dal passaggio dell’abito di mano in mano.

Nella terza sezione compaiono contributi su aspetti noti ma comunque degni di considerazione come il particolare rapporto tra la tipologia vestimentaria in uso e l’apparato della legislazione suntuaria adoperato nella Firenze tardo medievale (Klapisch-Zuber), e la tassonomia e l’etimologia dei colori nelle fonti medievali (Pastoreau). Essi anticipano il contributo di Alexandre-Bidon sugli abiti degli animali. Saggio illuminante e degno di nota, poiché opera lo sforzo non convenzionale di allontanarsi dalla tradizionale trattatistica sui bestiari medievali per utilizzare in maniera critica e convincente dati archeologici e iconografici tra i quali spiccano naturalmente quelli dei Libri d’Ore, combinati con fonti cronicistiche, per discutere del tema dell’abito connesso indubbiamente al simbolismo animale ma anche culturale legato a modelli aristocratici e cortesi.

Nell’ultima sezione il saggio di Gelly-Perbellini, che analizza l’abito legato al fenomeno della stregoneria attraverso le lettere di remissione del Trésor des Chartes, riprende in mano vecchi temi che furono cavallo di battaglia già di Roland Barthes, quali la sociologia dell’abito e la semiologia della moda. Se secondo Barthes attraverso la moda la società si metteva in mostra e comunicava ciò che pensava del mondo, il saggio di Gelly-Perbellini sembra convincentemente suggerire che il multiforme e poliglotta universo semantico vestimentario del Medioevo, che si formava e si riformava senza sosta, era il collettore di esperienze e allo stesso tempo il luogo metaforico originario da cui scaturivano credenze radicate nel pensiero tanto individuale quanto collettivo. In altre parole, sostiene l’autore, quando Barthes rifletteva sul coprirsi, o sul denudarsi, quando egli parlava di esibizionismo e/o, di contro, di vergogna, non a caso era all’identità e ai suoi mascheramenti che alludeva: in altre parole l’indumento esprimeva la profondità o di contro la perversità della psiche di chi lo indossava ma anche di chi lo guardava indossato. Nel caso delle streghe oggetto di esame nel saggio l’espressione del loro apparato vestimentario era realmente considerata essere l’equivalente del contenuto. Sulla scia di Piponnier, Mane ma soprattutto Pastoreau, Gelly-Perbellini evidenzia come l’abito fosse un fattore e un veicolo privilegiato anzi per segnalare la devianza (vera o supposta) e per manifestare la marginalità.

Nel saggio che segue invece, ci spostiamo in avanti di qualche secolo: Valantin contribuisce a fare luce sulla diffusione del concetto di Medioevo nel periodo di revival di quello che fu considerato il Medioevo gotico nel XIXe secolo. Apprendiamo come attraverso la creazione di sete e tessuti preziosi presso le manifatture lionesi, il Medioevo non fu tanto studiato e apprezzato in rapporto alle testimonianze testuali o archeologiche, ma in relazione a una realtà immaginifica, sognata, desiderata, argomento che in fondo è al centro del dibattito anche negli ultimi due saggi, dedicati al Medioevo nel cinema. Infatti essi rientrano nel filone che ha fatto della trattazione cinematografica del Medioevo un argomento di interesse negli ultimi anni per storici del calibro di Natalie Zemon Davis. Inoltre a questo filone è stato riservato un certo spazio anche dai palinsesti e dai programmi di importanti convegni internazionali di area anglosassone come l’IMC dell’Università di Leeds (Regno Unito) e l’international Congress of Medieval Studies di Kalamazoo organizzato dalla Western Michigan University (USA). I due saggi, opera di Passot e Chanoir, mettono ben in evidenza come uno dei concetti chiamato in causa da tutte queste rivisitazioni sullo schermo di personaggi e avvenimenti storicamente più o meno identificabili siano l’anacronismo e l’ignoranza; essi giocano spesso un ruolo preponderante nel riproporre cinematograficamente modelli che sono cronologicamente ‘sbagliati’ poiché situati al di fuori o al di là dell’epoca in cui tali personaggi realmente vissero, nel tentativo di soddisfare dei modelli ancorati all’immagine distorta presente nell’immaginario collettivo. In questo modo l’allusione al Medioevo è asservita totalmente alla logica dell’estetica, mediante l’uso di un simbolismo contemporaneo che interpreta il passato in modo illusorio e filologicamente inesatto. Non sorprende che la discussione tra gli storici si concentri quasi esclusivamente sui film cosiddetti “seri,” che fanno un tentativo ponderato di ricostruzione del passato. Ma il Medioevo del cinema è invece spesso specializzato nel mito, nello spettacolo e nell'avventura in contesti di potenza psicologica. Per quanto si scelga di considerare questi come mondi d’avventura o d’evasione, sembra comunque importante che il pubblico possa credere che siano esistiti. Il Medioevo cinematografico rappresenta il modo in cui infatti molte persone pensano realmente a quella parte della loro storia, e, non dimentichiamolo, il Medioevo continua a essere un motivo cinematografico popolare.

Nel complesso, nonostante questo sia un libro immensamente suggestivo e gratificante sul rapporto tra persone e abiti in Europa (e principalmente in Francia) tra il XIII e il XV secolo, gli autori presentano i loro risultati in modo per lo più fattuale, astenendosi dall’utilizzare ‘nuovo’ materiale primario che non rientri nella categoria di fonti già ampiamente utilizzate per le analisi di questo tipo, come gli inventari, i libri contabili, le leggi suntuarie, anche se le fonti impiegate sono ben inquadrate e storicamente problematizzate. Questo ha certamente dei vantaggi epistemologici, nel senso che arricchisce il panorama già nutrito di casi di studio pubblicati negli ultimi decenni sui materiali, le fiere, i circuiti commerciali, i mestieri della moda, così come è delineato negli studi di settore, ma non fornisce una nuova prospettiva--data da una nuova tipologia di fonti presentata o da un approccio comparativo--al senso della ricerca effettiva che sta dietro alle conclusioni qui offerte. Manca quindi il tentativo, da parte di questo peraltro pregevole volume, di guardare oltre, sia geograficamente che tematicamente, e così approfondire con un approccio fresco e meno dogmatico un campo dove, come del resto scrive nell’introduzione uno degli stessi editori, “les enquêtes autour du vêtement médiéval ont une longue histoire et encore beaucoup d’avenir.”