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17.12.31, Feller and Lackner, eds., Manu propria

17.12.31, Feller and Lackner, eds., Manu propria


La raccolta di saggi Manu propria è dedicata a una particolare declinazione dell'autografia, tema che riscuote sempre grande interesse, sia dalla prospettiva squisitamente paleografica, sia da quella più storico-letteraria, come è testimoniato, fra l'altro, da una bibliografia di estrema ampiezza, che parte da lontano: basti citare lo studio di Paul Lehmann Autographe und Originale namhafter lateinischer Schriftsteller des Mittelalters, come anche gli atti di molti incontri di studio sulla questione, fra cui il convegno "Gli autografi medievali. Problemi paleografici e filologici" svoltosi nel 1990 a Erice, e quello del Comité international de paléographie latine, "Les autographes du Moyen Âge," svoltosi a Lubiana nel 2010.

Appare però necessario circoscrivere e spiegare il concetto di autografia, nella quale si assimilano due pratiche analoghe. Da una parte l'autografia in senso stretto, dunque la fissazione in forma scritta di un'opera da parte del suo autore, cioè lo scrittore che diventa anche il copista di se stesso. Dall'altra parte, per traslato, un'attività di copia di opere altrui, svolta sia per sé che per altri. Di norma infatti, si intende per autografo un testo scritto dalla mano del suo autore, ma anche, per esteso, ogni testimonianza della mano di questo stesso autore. A questa visione dell'autografia se ne può accostare un'altra, più estensiva, per cui si intende come tale qualunque testimonianza scritta riconducibile a un dato scrivente: in tale modo, passando dal contesto librario a quello documentario, si possono considerare testimonianze autografe tanto le sottoscrizioni, anche brevi, magari limitate esclusivamente al nome, quanto testi più ampi e dalla fisionomia ben definita quali le lettere.

Non è peraltro possibile non accennare anche alla questione dell'identificazione degli autografi, dunque dell'attribuzione alla mano di un dato scrivente di un prodotto grafico che non contiene al suo interno dati certi ed espliciti relativi a chi lo ha realizzato, attribuzione che deve contemplare necessariamente anche una expertise paleografica, per mettere in rilievo le caratteristiche più salienti e connotanti delle scritture da confrontare.

Torniamo però a Manu propria, in cui si studiano le prove grafiche, più o meno estemporanee e organiche, che si possono attribuire agli interventi appunto autografi di personalità eminenti, appunto ai potenti menzionati nel titolo. Ma chi sono questi potenti? Sono uomini e donne, religiosi e laici, re e regine, duchi e duchesse, papi e cardinali, che si muovono fra il pubblico e il privato, fra l'esercizio del potere e l'esternazione dei propri sentimenti, usando la comunicazione scritta anche come strumento per governare.

Entriamo allora meglio nel volume, guidati dall'introduzione di Christian Lackner (9-18), che bene definisce il senso di una ricerca sulle scritture autografe, che non sono appunto esclusivamente quelle di ambito letterario e che richiedono di essere affrontate anche da una prospettiva storico-diplomatistico-giuridica. Lackner sottolinea anche come l'autografia possa essere un paradigma interpretativo, funzionando non solo come unità di misura dei livelli di alfabetizzazione degli scriventi, ma anche strumento per valutarne e ricostruirne la personalità.

Le figure che incontriamo nel saggio di Claudia Märtl (19-47) sono componenti di un nucleo famigliare di estremo prestigio, quello dei Borgia: dunque Rodrigo, che fu papa Alessandro VI, e i suoi figli Cesare, Jofre, Lucrezia e Joan, delle cui testimonianze autografe, scritte soprattutto in italiano e catalano, si conserva un numero cospicuo di esempi, cui si deve aggiungere anche la documentazione pontificia su cui il papa Borgia ha apposto una firma oppure qualche nota. L'attenzione si concentra prevalentemente sulle missive scritte dai Borgia fra il 1493 e il 1494, di cui si fornisce un elenco e che coinvolgono anche importanti personaggi protagonisti di questo scambio epistolare. Bene si osserva come la scelta dell'autografia sia consapevole e voglia anche sottolineare i legami personali con gli interlocutori cui si indirizzano le lettere, e opportunamente si offre qualche riflessione di ordine paleografico sulle tipologie grafiche--di base corsiva--impiegate dai Borgia, indugiando sulla scrittura di Lucrezia, che impiega invece una faticosa minuscola vicina all'umanistica corsiva.

Il saggio successivo, di Martin Wagendorfer (49-67), parla invece di codici autografi, nello specifico del ms. Burney 107 della British Library, testimone mutilo della traduzione latina di Guarino Veronese della Geographia di Strabone, che dell'autografo guariniano rappresenta peraltro la copia più antica. Il libro appartenne alla ricca biblioteca dell'umanista senese Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II dal 1458, di cui porta lo stemma al fol. 1r. Un libro cartaceo, del sesto decennio del Quattrocento, scritto da ben dieci mani, diseguali per livelli esecutivi e provenienze, almeno due delle quali sono riconoscibili come proprie di persone appartenenti alla cerchia del Piccolomini. Soprattutto un libro in cui sono visibili gli interventi autografi di Pio II, che vi appone numerose note marginali e di cui copia un intero fascicolo, in una minuta umanistica corsiva. Un libro dunque non solo commissionato dal papa, ma che venne realizzato nel suo entourage e con la sua diretta partecipazione, sebbene non sia un vero e proprio autografo da aggiungere agli altri noti attribuiti al Piccolomini.

Il denso saggio di Werner Maleczek sugli autografi dei cardinali del XIII e del XIV secolo (69-148) ne offre una rigorosa lettura secondo una prospettiva storico-diplomatistica, ma allarga la sua visuale considerando anche gli autografi dei pontefici durante il periodo avignonese e dello Scisma d'Occidente. Quello che emerge da questa accurata ricostruzione, ricca di dettagli e di nomi, come anche di puntuali richiami alle fonti, che valuta anche il significato per così dire politico di questa prassi, è la circostanza per cui questi i sapevano scrivere e sottoscrivevano di loro pugno i documenti pontifici, in particolare i privilegi solenni, a partire dal pontificato di Alessandro II (1061-1073), sebbene già con Alessandro IV (1254-1261) e con l'affermarsi di un nuovo tipo di documento, quale la bolla, queste sottoscrizioni, senza scomparire del tutto, si fanno più rare. Ma gli interventi autografi dei cardinali possono consistere anche in prove grafiche più ampie e significative, come bozze di documenti o vere e proprie lettere. Un'attività scrittoria che si connette anche con il loro ruolo di legati pontifici, e che si fa sempre più intensa a partire dal 1378, dunque dallo Scisma d'Occidente, e di fatto per tutto il Quattrocento, in particolare all'interno delle litterae consistoriales.

A seguire una serie di interventi più asciutti, a cominciare da quello di Irmgard Fees (149-169), che in maniera sistematica osserva le sottoscrizioni autografe di diciassette dogi veneziani, da Vitale Falier, che resse la città a partire dal 1084, a Pietro Gradenigo, eletto nel 1289. Ma nelle sottoscrizioni si esauriscono le manifestazioni delle competenze grafiche dei dogi, che si limitarono a firmare sempre in prima persona, usando formule secche e standardizzate. Tuttavia queste testimonianze attestano un uso disinvolto della scrittura, in generale eseguita correttamente, sebbene talora in forme disarticolate, che si rifà prevalentemente ai coevi modelli librari della tarda minuscola carolina e della littera textualis semplificata, essendo invece ridotte le realizzazioni corsive, con qualche spunto cancelleresco. Un uso della scrittura, va sottolineato, che deriva dall'avere svolto incarichi nella vita pubblica veneziana e che era diffuso negli ambienti mercantili cittadini.

Nel saggio di Nicholas Vincent (171-184) si indaga sulla presenza dei sovrani inglesi all'interno della cancelleria regia sino al 1330, una data significativa, dal momento che sino al regno di Edoardo III (1327-1377) non vi sono tracce certe delle sottoscrizioni autografe dei sovrani. Sono piuttosto altri gli elementi attraverso i quali i re danno solennità e valore ai documenti da loro emanati, quali sigilli e segni di croce, tracciati probabilmente da loro stessi. Ci si sofferma in particolare sulla documentazione prodotta fra il 1150 e il 1330, in cui è possibile osservare un'evoluzione formale e al cui interno si cercano le tracce di un ruolo attivo dei sovrani nell'elaborazione testuale e nella redazione materiale dei documenti e delle lettere prodotte dalla cancelleria regia. Traccia che può essere rappresentata, ad esempio, dalla formula, divenuta stilema fisso dal 1170, teste me ipso, in cui a parlare, e prima ancora a decidere, è appunto il re in persona. Non è tuttavia sempre facile sentire l'eco della voce del sovrano nei documenti, così come individuare quelli che l'autore chiama i suoi "personal touches."

Il saggio di Malcolm Vale (185-195) parte proprio da dove si era arrestata l'indagine precedente, valutando gli usi dell'autografia da parte dei sovrani inglesi fra il 1350 e il 1480, e distinguendo fra 'autograph'--con cui intende un documento sottoscritto dal sovrano--e 'olograph'--con cui indica un documento scritto dalla sua mano. Fu in particolare Enrico V (che regnò dal 1413 al 1422) a produrre documenti in cui, in parte o per intero, era attiva la mano del re, prassi che era appunto sino ad allora assai rara e che può venire intesa anche come l'espressione di una costante assunzione di responsabilità in prima persona da parte del re rispetto a quanto viene fissato in un documento. La scelta dell'autografia si lega peraltro a una importante decisione presa dallo stesso Enrico, quella di introdurre l'inglese come lingua dell'amministrazione pubblica, e ottiene peraltro l'importante scopo di garantire l'autenticità del documento.

Con il saggio di Claude Jeay (197-217) ci spostiamo in Francia, a studiare l'epifania del potere che si concretizza nell'autografia. In realtà la pratica della sottoscrizione autografa dei re francesi si afferma in epoca piuttosto recente: il primo a sottoscriversi è Giovanni II il Buono, che regnò dal 1350 al 1364 e la cui firma costituì un vero e proprio prototipo. Giovanni usa il solo nome di battesimo, in una elegante scrittura corsiva di piccolo modulo, e l'autore ricerca origini e motivazioni delle sottoscrizioni regie, connettendole con quelle degli ufficiali di cancelleria, cui, imitandole, si rifanno gli interventi del re. Quanto ai motivi che hanno indotto il sovrano ad apporre di suo pugno la propria firma, sembra che questa non sia servita a corroborare un documento, piuttosto abbia avuto la funzione precipua di affermare la sua presenza proprio quando Giovanni era lontano, tenuto prigioniero a Londra: la firma insomma diventa l'emanazione diretta e visibile della sua persona, la materializzazione del re anche in sua assenza. La sottoscrizione autografa non rimase peraltro fatto estemporaneo, ma fu adottata dai successori di Giovanni, Carlo V e Carlo VI: anche per loro la firma diventa uno strumento di governo e nel contempo la propria rappresentazione simbolica.

Se molti dei saggi sono stati dedicati a osservare il fenomeno dell'autografia come esperienza collettiva e condivisa, altri si concentrano invece sulle pratiche della scrittura autografa valutandole attraverso singole esperienze individuali. Così fa Daniela Rando occupandosi di Johannes Hinderbach (219-227): complessa e vivace figura di umanista e di religioso, che studiò a Vienna e a Padova, fu vescovo, fine intellettuale e filologo, bibliofilo appassionato, committente e raccoglitore di libri manoscritti e a stampa, sui margini dei quali appose numerosissime note. Hinderbach non solo compone opere storiche e copia manoscritti, ma li glossa anche, firmando integrazioni e annotazioni. Significativamente l'autrice sottolinea come da principe-vescovo di Trento Hinderbach abbia anche governato con la penna in mano, penna che gli servì ad esempio per scrivere lettere o per commentare testi giuridici e liturgici.

Nel saggio di Francisco M. Gimeno Blay (229-262) incontriamo la figura di Isabella la Cattolica, regina di Castiglia, di cui descrive le testimonianze autografe, numerose e diverse, che si collocano nella sfera tanto del pubblico che del privato. L'avventura grafica di Isabella, pure nella stentatezza delle sue prove scrittorie, ma anche nella sua piena consapevolezza dell'importanza della scrittura autografa come strumento di comunicazione e come modo per supplire idealmente alla propria assenza, si snoda fra ambiente famigliare ed esercizio del potere e diversi sono i contesti in cui la regina interviene con la firma, in cui al pronome Yo segue la definizione del suo ruolo: Infante, Prinçesa, Reina. La regina spagnola sottoscrisse molti documenti prodotti dalla cancelleria reale, ma scrisse di suo pugno anche brevi testi, spesso concisi ordini, così come missive al suo sposo, Fernando II d'Aragona. La sua prova grafica più straordinaria è però certamente il Memorial, una vera e propria agenda ove annotava le questioni da discutere coi suoi segretari, utilizzando una scrittura che si richiama alla gotica corsiva.

Il lavoro a quattro mani di Alain Marchandisse e Bertrand Schnerb (263-279) ritorna al binomio fra potere e scrittura e si concentra sui modi in cui due dei primi duchi di Borgogna del casato di Valois sono intervenuti nella documentazione con una sottoscrizione autografa. Inizia questa prassi Giovanni senza Paura, che resse il ducato dal 1404, e che firma, usando il nome proprio, sia atti pubblici di importanza rilevante (come trattati di alleanza), quanto lettere e mandati. Così non solo si sottolinea il ruolo del duca nelle decisioni prese, ma si intende aumentare il valore degli stessi documenti. Il figlio e successore di Giovanni, Filippo il Buono, non solo si sottoscrive mantenendosi nel doppio ambito politico e amministrativo, ma, allargando il suo raggio d'azione, scrive di suo pugno mandati ducali e lettere a interlocutori diversi, fonti queste che ci consentono anche di ricostruire la rete dei suoi affari.

Chiude il volume il saggio di Claudia Feller (281-312), entrando nella sfera dell'intimo di Margherita d'Asburgo, moglie di Enrico XVI di Wittelsbach, duca di Baviera-Landshut, grazie alla lettura delle tre litterae clausae che ella scrisse nel 1425 al fratello, Alberto V duca d'Austria, il futuro re Alberto II di Germania. Queste lettere, che consentono di aggiungere dettagli alla vita della duchessa, sono scritte in una minuta gotica corsiva, non sempre ben leggibile, e sono analizzate nelle loro strutture formale. In particolare esse tradiscono il desiderio di Margherita che rimangano segrete, soprattutto in considerazione del fatto che trasmettono le sue confidenze sul rapporto col marito

Quello che emerge in definitiva, oltre alla verifica (che poteva non essere scontata) di un'acquisizione, seppure a livelli diversi, di competenze grafiche da parte degli illustri protagonisti di queste ricerche, pure tutti importanti e potenti, ma differenti per ruoli e fisionomie, è come l'autografia, parziale o integrale, indichi esperienze fortemente divaricate, e come le si possano attribuire valori e funzioni di volta in volta simbolici o più concreti: in ogni caso le scritture autografe rappresentano idealmente i sovrani, danno maggiore valore ai loro ordini, indicano una vicinanza anche affettiva con i loro destinatari, stringono ulteriormente legami politici o famigliari.

Un rilievo conclusivo. Spiace che in molti saggi di questo volume, così pieno di spunti, manchi in realtà una disamina più specificamente paleografica: la valutazione delle testimonianze esaminate è orientata secondo una prospettiva storica, o anche diplomatistica, funzionale non solo alle ricostruzioni di eventi, ma soprattutto di biografie, personali o famigliari. Avrebbe allora certamente giovato un approfondimento anche delle fisionomie grafiche dei protagonisti di questa lunga stagione dell'autografia, in modo da consentire anche un allargamento verso altre questioni, quali le funzioni della comunicazione scritta e le modalità di acquisizione ed esercizio delle competenze scrittorie, per cambiare la scala di osservazione e passare dal particolare al generale.