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13.06.04, Fumagalli, Il Giusto Enea e Il Pio Rifeo

13.06.04, Fumagalli, Il Giusto Enea e Il Pio Rifeo


Nel suo pionieristico saggio The Discarded Image (Cambridge: Cambridge University Press, 1994), C.S. Lewis scriveva che non esistono fonti così necessarie che uno studioso di letteratura medievale deve conoscere come la Bibbia, Virgilio e Ovidio (22), e lo studio dell'intertestualità della Commedia ne è certo la conferma più autorevole. Il riflesso di questo nodo della tradizione culturale del medioevo sulla Commedia è il motore del bel volume di Edoardo Fumagalli, che raccoglie undici saggi scritti nell'arco di dieci anni di fedeltà alla poesia dantesca.

Il primo saggio, che dà il titolo a tutta la raccolta, fornisce un'interessante lettura metrico-stilistica e contenutistica del primo canto dell'Inferno e soprattutto una lunga chiosa ai notissimi versi 73-75 che introducono nel poema il personaggio di Virgilio ("Poeta fui, e cantai di quel giusto/ figliuol d'Anchise che venne di Troia, / poi che 'l superbo Ilïón fu combusto"). Nel primo canto il personaggio di Enea è il simbolo della iustitia più che, come ci aspetteremmo, della pietas. Per chiarire il significato di quest'apparente incoerenza rispetto alle fonti vulgate, lo studioso affronta uno dei problemi esegetici tra i più indagati e controversi, il senso della giustizia divina e la possibilità di salvezza per i non cristiani. In De civitate Dei 18.47, Agostino risolveva la questione a favore della salvezza dei non appartenenti al popolo eletto, come Giobbe ad esempio. Dante fa lo stesso con il pagano Rifeo, trasferendo autorità dalla Bibbia all'Eneide. Il che non significa presentare al lettore un Virgilio cristianizzato; al contrario Dante immagina il suo personaggio come un uomo che adesso vede la verità e comprende, quando è ormai troppo tardi, il proprio errore.

Il secondo saggio, dedicato a una lettura del canto 24 dell'Inferno, entra nel laboratorio ovidiano di Dante, ma il punto di osservazione non è la ricerca di tasselli classici incastonati in un mosaico di allusioni poetiche, quanto un'analisi della funzione semantica delle rime (soprattutto le rime uniche, che cioè ricorrono una sola volta nel poema). In questo canto l'unicità della rima prepara il pezzo di bravura del canto seguente sulle metamorfosi di uomini in rettili e il motivo poetico del vanto (cf. Inferno 25.94-102: "Taccia Lucano omai...Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio").

Il terzo saggio, incentrato sul canto di Ulisse, è tra i contributi più interessanti del volume e in effetti sorprende che possa aggiungersi ancora qualcosa di nuovo (nell'accertamento delle fonti o nell'articolazione critica) all'esegesi infinita del celeberrimo episodio. Fumagalli legge il canto non tanto sotto la lente classica e ancora ovidiana, ma valutando, come la critica ha fatto sempre di più in anni recenti, la forte presenza biblica e della relativa esegesi patristica. Nella Bibbia, allora, e non in Ovidio o in Virgilio, andrà ricercato il significato dell'Ulisse dantesco: "così che si può perfino giungere a sostenere che, se è vero che i materiali provengono dalla tradizione classica, il criterio che li unifica e li rende vivi è invece ancorato alle Scritture" (59). Lo studioso riprende e approfondisce il parallelo già avanzato tra Ulisse e il profeta Elia, con particolare riferimento a 4Re 2.11-12. Nel racconto biblico Elia è visto da Eliseo mentre sale in cielo "per turbinem" e un "turbo" viene dalla terra intravista da Ulisse: Dante contrappone all'ascesa di Elia la discesa dell'eroe greco; stesso discorso va fatto per la "nubecula" annunziata da Elia, portatrice di un'acqua salvifica che muta segno nel naufragio di Ulisse. Secondo lo studioso, sembra davvero "che Elia e Ulisse vengano presentati non solo come destinati a esiti opposti, con l'ascesa dell'uno in cielo e con l'inabissamento dell'altro; ma che essi siano chiamati a significare anche due tipi diversi di dispensatori della parola e che a Elia, profeta e latore di un messaggio che non gli appartiene e che si limita a trasmettere, si contrapponga lo pseudoprofeta, capace di dare parvenza di santità a un discorso perverso, o di orientare a fini cattivi un'esortazione in sé buona" (63-64).

Il quarto saggio propone un'analisi del personaggio di Stazio (Purgatorio 21-22), dialetticamente legato a quello virgiliano, a tal punto da far pensare che Dante li abbia concepiti insieme. All'inferiorità poetica di Stazio, corrisponde una sua superiorità nella fede, per cui tocca a lui essere il revisore delle tesi virgiliane. Ma il gioco delle relazioni si spinge oltre quello tra i personaggi sulla scena del poema: descrivendo il mostro Briareo (Inferno 31.97-105), Virgilio personaggio corregge Virgilio autore (Aen 6.287), ma lo fa per mezzo dell'aggettivo "smisurato" debitore dell'"inmensus" di Stazio. In ultima analisi, nel loro antagonismo dialettico, Virgilio e Stazio sono plasmati da Dante come precursori di se stesso.

Si prosegue con una chiosa al canto 13 del Paradiso, ovvero al nodo che Dante scioglie in merito all'affermazione della sapienza di Salomone (cf. Paradiso10.112-114). Il personaggio di Tommaso chiarisce che la perfezione si è trovata soltanto in Adamo e in Gesù, il primo direttamente creato da Dio e il secondo incarnato nella Vergine madre; Salomone è stato invece il più perfetto dei re. Segue il famoso invito del santo a non giudicare ciò che non si conosce. Fumagalli si mostra perplesso di fronte a un intero canto scritto come denuncia della presunzione. Del resto, nell'episodio biblico da cui tutto il canto dipende (3Re 3.5-15) non è fatta menzione della particolare sapienza di Salomone nelle cose del regno, laddove al versetto 12 si parla invece di una sapienza di natura universale: "et dedi tibi cor sapiens et intelligens, in tantum ut nullus ante te similis tui fuerit nec post te surrecturus sit." Sulla base della distinzione dantesca dei due tipi di sapienza, quella del governo, tipica del vero re, e quella delle scienze speculative, Fumagalli riprende e approfondisce una vecchia tesi di Stanislao Chiara, secondo cui Dante vorrebbe qui colpire un esponente della casa francese, il poco amato Roberto d'Angiò, noto anche come "re da sermone." In particolare, nei vv. 94-96 del canto ("Non ho parlato sì, che tu non posse / ben veder ch'el fu re, che chiese senno / acciò che re sufficïente fosse") Dante si allontana dal testo biblico sulla base di un'altra fonte, che Fumagalli ritiene essere la bolla Gloria, laus et honor di Bonifacio VIII, in cui si ritrovano gli aggettivi "sufficiens" e "idoneus", 'adatto' in ambo i casi ma usati rispettivamente per un laico e per un ecclesiastico. Bonifacio si riferisce qui a un altro re francese, Luigi IX, e Dante, passando da lui a Salomone, avrebbe conservato soltanto l'aggettivo di accezione laica, "sufficiens."

In stretta continuità con il saggio precedente, la digressione sulla sapienza di Salomone è ora messa in relazione con l'enigma del giglio in Paradiso 18.88-114. Fumagalli riprende qui la tesi di Ernesto Giacomo Parodi, secondo cui tra la lettera finale del visibile parlare ("DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM", vv. 91-93) e l'apparizione dell'aquila esisterebbe una fase intermedia, nettamente distinta e consistente nell'immagine di un giglio, allusivo alla casa reale di Francia. Lo studioso parte dall'analisi della decretale Per venerabilem di Innocenzo III, che sanciva il principio per cui il re di Francia poteva non riconoscere l'Imperatore, garantendo così alla casa francese una certa autonomia politica. Secondo Dante, allora, i re di Francia si erano incamminati per una via sbagliata ostacolando il compito provvidenziale dell'Impero, ma avevano pur ricevuto l'assicurazione di una decretale pontificia. Dante si troverebbe pertanto in un imbarazzo che riesce a superare con l'immagine delle anime che s'ingigliano all'M, ovvero sostengono l'autonomia del regno francese, ma questa è soltanto una fase di transizione, finita la quale, esse si uniranno all'aquila imperiale. In altri termini, i francesi sbagliano ma in buona fede e in futuro comprenderanno il proprio errore e ritorneranno all'Imperatore.

Il saggio su Dante e Pier Damiani è un altro contributo di grande interesse per l'ermeneutica dantesca. L'incontro tra il poeta e il teologo avviene nel canto 21 del Paradiso, dove nel cielo di Saturno gli spiriti contemplativi appaiono mentre discendono per una lunga scala (vv. 25-33). Si tratta con ogni evidenza della scala che Giacobbe vide in sogno (Genesis 28.10-22), ma in Dante ci sono beati e non angeli e colti nell'atto di discendere e non, come nella fonte, "ascendentes et descendentes." Esaminando la tradizione esegetica relativa alla scala di Giacobbe, Fumagalli isola tre filoni riconducibili alle interpretazioni di Girolamo, Cesario di Arles e Agostino, ma è quest'ultimo nel trattato In Iohannis Evangelium 7.23 a offrire l'interpretazione più coerente per i versi del Paradiso: per Agostino, i predicatori salgono, come San Paolo, per ascoltare "ineffabilia verba quae non licet homini loqui", poi scendono, ancora come Paolo, per parlare agli uomini." È notevole, continua lo studioso, che la parte della predicazione sia presentata prima di quella contemplativa, che è la caratteristica propria dei beati che si presentano al pellegrino nel cielo di Saturno. E conclude: "Il messaggio del canto di Pier Damiani è forse soprattutto qui: nella vita contemplativa che prepara alla vita attiva, dopo esserne stata il frutto. È quanto dire che la Commedia, se parla dell'inferno e del purgatorio, mira però non all'altra vita, ma a questa: il monaco di Fonte Avellana è portavoce, anche, dell'umanesimo dantesco" (157).

Il saggio successivo è dedicato al memorabile attacco di Paradiso 25 e al motivo dell'incoronazione poetica di Dante al suo rientro a Firenze. Di un'ambita corona d'alloro si parla nel canto 1 e nel 25, così come nell'egloga 1, passi che lo studioso riordina secondo una differente cronologia, ovvero Paradiso 1 - egloga - Paradiso 25. Questi ultimi due testi rappresentano, secondo Fumagalli, la reazione dantesca alla notizia dell'incoronazione poetica di Albertino Mussato nel 1315 a Padova, laddove i versi del poema testimoniano in particolare una nuova e chiara volontà profetica, religiosa, non più la ricerca del semplice riconoscimento delle proprie ineguagliate qualità poetiche.

Il saggio che segue propone un'analisi della preghiera di San Bernardo alla Vergine attraverso l'impiego sapiente delle rime, che, come rileva Fumagalli, non sono qui rime preziose, come ci si aspetterebbe, ma comuni. Quest'apparente semplicità, tuttavia, è smentita non solo dal tono sublime del canto, ma anche da elementi formali: il fatto, ad esempio, che all'interno della preghiera le rime comuni servano a richiamare questioni e problemi già introdotti in precedenza e cui Dante allude ora, in chiusa al poema, con intento riepilogativo e chiarificatore. Nella seconda parte del contributo, il discorso sulle rime si salda con la più stretta esegesi del canto, dove ritorna il paragone distanziante tra Dante e Ulisse, suggerito dalla preghiera di Dante a Virgilio di poter ascoltare le parole dell'eroe greco (Inferno 26.64-69: "maestro, assai ten priego / e ripriego, che 'l priego vaglia mille..."). Nella preghiera alla Vergine, ancora una volta l'avventura di Dante si salda a quella di Ulisse, ma in termini oppositivi, portando a compimento il superamento di quest'ultima nel volo di chi ha implorato l'aiuto di Maria, o meglio che da lei ha ricevuto la grazia straordinaria di quel volo. Davvero suggestiva, infine, la chiusa sulla dialettica tra le rime comuni in -ura, cui si contrappone, solitaria, la rima in -unsi: "la preghiera a Maria, ausiliatrice e mediatrice, è un dovere cui nessuno può sottrarsi, se vuole volare con le ali della fede e dell'umiltà, e la quotidianità dell'impegno è sottolineato dall'analoga quotidianità delle rime in -ura e in -ore; ma su questo sfondo, che è di tutti, si staglia, sublime e messo in evidenza dall'unicità della rima in -unsi, il privilegio della visione" (196).

Nel penultimo saggio Fumagalli ritorna sulla questione, ancora aperta, della conoscenza da parte di Dante di Gioacchino da Fiore e del possibile impiego del suo Liber figurarum nella descrizione della Trinità in Paradiso 33.115-120. In questo caso, lo studioso usa l'opportuna cautela e non offre nessuna ipotesi, né si sente di sottoscrivere la proposta di Leone Tondelli secondo cui Dante aveva visto i codici di Reggio e Oxford del Liber figurarum. Se si considera poi l'idea di associare la Trinità ai colori dell'iride, che risale almeno a Basilio e passa poi alla patristica latina, rimaniamo sul terreno dell'incertezza: Dante avrebbe derivato anche quest'immagine da Gioacchino? Più prudente concludere, secondo l'autore, che "se Dante è stato affascinato dall'abate, così da collocarlo in posizione rilevata nel cielo del Sole, non pare che i cerchi trinitari del Liber figurarum abbiano esercitato tanta forza da limitarne la fantasia" (214).

Il volume si conclude, come era iniziato, su note virgiliane. L'intento è quello di offrire una riflessione sulle differenze tra il Virgilio della storia e il Virgilio della Commedia, per tentare di comprendere quale immagine del poeta latino propone Dante. L'analisi torna sul problema della giustizia divina, già affrontato all'inizio, e sui testi allegati in quella sede, ma una riflessione più attenta si affaccia in queste pagine conclusive di tutto il volume. Lo studioso avanza alcune definizioni interessanti, come quella di Virgilio "portatore malato di un bene", di cui beneficerà infatti un altro pagano, Stazio. Segnali di un progressivo superamento di Virgilio si avvertono sempre più chiari sin dalla consacrazione di Dante compos sui (Purgatorio 27.124-142) e dalla successiva scomparsa del poeta latino, fino alla rivendicazione dantesca del titolo di autore del poema sacro in Paradiso 25. Tra le idee più suggestive mi sembra quella di una pena aggiuntiva cui è soggetto Virgilio, non solo quindi la privazione di Dio, come accade a tutti gli spiriti del limbo, ma il viaggio stesso di Dante. Su questa ipotesi si chiude il volume: "Il Virgilio dantesco è ciò che il Virgilio storico sarebbe dovuto essere e, per colpa sua, non è stato. Adesso sconta nel limbo il suo peccato: ma per una volta, eccezionalmente come è eccezionale il viaggio del suo discepolo--e forse sta qui la vera sorgente della sua malinconia--egli svolge consapevolmente quell'ufficio di guida che in vita, quando ancora poteva salvarsi, ha svolto in modo efficace--come le parole di Stazio mostrano--ma inconsapevole" (245).

L'autore di queste pagine dantesche si dichiara umilmente un non dantista di professione, ma il suo è lavoro solido e accurato, capace di fornire un contributo reale al progredire degli studi. Il metodo di lavorare su eminenti cruces, caro a Leo Spitzer e riproposto da Guglielmo Gorni, impone una certa frammentazione del discorso critico; ma nel caso in esame, pur trattandosi di una raccolta di saggi, l'unità è garantita dalla continuità dei temi che ritornano fornendo approfondimenti successivi. Le proposte ermeneutiche non mancano e sono supportate dalla presentazione e discussione di prove convincenti. Il lavoro si segnala anche per l'interesse dell'autore per la costruzione metrico-stilistica del poema e per come, attraverso la forma, Dante comunichi ai propri versi ulteriore senso poetico e dottrinale; per la sua capacità di muoversi diacronicamente negli studi danteschi riproponendo contributi classici (Novati, D'Ovidio, Comparetti, soprattutto Courcelle, ecc.); per l'impiego della bibliografia in lingua tedesca, quasi completamente assente altrove (manca forse in parte quella americana), per la chiarezza del dettato e per una scrittura che non disdegna di mettersi al servizio del lettore.